Racconti
di morte, nel Vangelo, e grandi domande. Che colpa avevano quei diciotto
uccisi dalla caduta della torre di Siloe? È Dio che manda il terremoto? Per
castigare qualcuno distrugge una città? Gesù prende le difese di Dio e degli
uccisi: la mano di Dio non produce morte; l'asse attorno al quale gira la
storia non è il peccato. Chi soffre si chiede: che cosa ho fatto di male per
meritarmi questo castigo? Gesù risponde: niente, non hai fatto niente. Dio è
amore e l'amore non conosce altro castigo che castigare se stesso. Smettila di
pensare che l'esistenza si svolga nell'aula di un tribunale, Dio non spreca la
sua eternità in condanne, o in vendette. La gente interroga Gesù su fatti di
cronaca, ed è chiamata a guardarsi dentro.
Ancora
un anno, ancora un giorno, ancora sole, pioggia e lavoro: quest'albero è buono,
darà frutto! Tu sei buono, darai frutto! Dio, come un contadino, si prende cura
come nessuno di questa vite, di questo campo seminato, di questo piccolo orto
che io sono, mi lavora, mi pota, sento le sue mani ogni giorno. «Forse, l'anno
prossimo porterà frutto». In questo forse c'è il miracolo della pietà divina:
una piccola probabilità, uno stoppino fumigante sono sufficienti a Dio per attendere
e sperare. Si accontenta di un forse, si aggrappa a un fragile forse. Per lui
il bene possibile domani conta più della sterilità di ieri. Convertirsi è
credere a questo Dio contadino, simbolo di speranza e serietà, affaticato
attorno alla zolla di terra del mio cuore. Salvezza è portare frutto, non solo
per sé, ma per altri. Come il fico che per essere autentico deve dare frutto,
per la fame e la gioia d'altri, così per star bene l'uomo deve dare. È la
legge della vita.
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