domenica 25 dicembre 2016

Il Vangelo della Domenica - 25 dicembre 2016 - Santo Natale



Mentre a Roma si decidono le sorti del mondo, mentre le legioni mantengono la pace con la spada, in questo mec­canismo perfettamente olia­to cade un granello di sab­bia: nasce un bambino, suf­ficiente a mutare la direzio­ne della storia. La nuova ca­pitale del mondo è Betlem­me.
Lì Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una man­giatoia... nella greppia degli animali, che Maria nel suo bisogno legge come una cul­la. La stalla e la mangiatoia sono un 'no' ai modelli mondani, un 'no' alla fame di potere, un no al 'così van­no le cose. Dio entra nel mondo dal punto più basso perché nessuna creatura sia più in basso, nessuno non raggiunto dal suo abbraccio che salva.
Natale è il più grande atto di fede di Dio nell'umanità, af­fida il figlio alle mani di una ragazza inesperta e genero­sa, ha fede in lei. Maria si prende cura del neonato, lo nutre di latte, di carezze e di sogni. Lo fa vivere con il suo abbraccio. Allo stesso modo, nell'incar­nazione mai conclusa del Verbo, Dio vivrà sulla nostra terra solo se noi ci prendia­mo cura di lui, come una ma­dre, ogni giorno. C'erano in quella regione al­cuni pastori... una nuvola di ali e di canto li avvolge. È co­sì bello che Luca prenda no­ta di questa unica visita, un gruppo di pastori, odorosi di lana e di latte... È bello per tutti i poveri, gli ultimi, gli a­nonimi, i dimenticati. Dio ri­parte da loro. Vanno e trovano un bambi­no. Lo guardano: i suoi occhi sono gli occhi di Dio, la sua fame è la fame di Dio, quelle manine che si tendono ver­so la madre, sono le mani di Dio tese verso di loro.
Perché il Natale? Dio si è fat­to uomo perché l'uomo si faccia Dio. Cristo nasce perché io nasca. La nascita di Gesù vuole la mia nascita: che io nasca diverso e nuovo, che nasca con lo Spirito di Dio in me.
Natale è la riconsacrazione del corpo. La certezza che la nostra carne che Dio ha pre­so, amato, fatto sua, in qual­che sua parte è santa, che la nostra storia in qualche sua pagina è sacra. E nessuno può dire: qui finisce l'uomo, qui comincia Dio, perché Creatore e creatura ormai si sono abbracciati. Ed è per sempre.
Buon Natale a tutti!

domenica 18 dicembre 2016

Buon Natale!


Il Vangelo della Domenica - 11 dicembre 2016

Giovanni, la roccia che sfidava il ven­to del deserto, che era «anche più di un profeta», «il più grande» di tutti entra in crisi: sei tu o no quello che il mon­do attende? Il profeta dubita e Gesù conti­nua a stimarlo. E questo mi conforta: an­che se io dubito la fiducia di Dio in me re­sta intatta. Perché è umano, di fronte a tan­to male, dubitare; di fronte al fatto che con Gesù cambia tutto: non è più l'uomo che vive per Dio, è Dio che vive per l'uomo, che viene a prendersi cura dei piccoli, a guari­re la vita malata, fragile, stanca: i ciechi riac­quistano la vista, gli zoppi camminano, i sordi odono, ai poveri è annunciato il Van­gelo, tutti hanno una seconda opportunità. Gesù elenca sei opere non per annunciare un fiorire di miracoli all'angolo di ogni stra­da, ma che Dio entra nelle ferite del mon­do, per trasformarlo. Gesù non ha mai promesso di risolvere i problemi della sto­ria con i miracoli. Ha promesso qualco­sa di più forte ancora: il miracolo del se­me, il lavoro oscuro ma inarrestabile del seme che fiorirà. Beato chi non si scandalizza di me. È lo scandalo della misericordia, Gesù è un Dio che non misura i meriti, ma guarisce il cuo­re; che invece di bruciare i peccatori, come annunciava il Battista, siede a tavola con loro. È lo scandalo della piccolezza. Le sei opere d'amore che Gesù elenca non han­no cambiato il mondo, per un lebbroso guarito milioni d'altri si sono ammalati; nessun deserto si è coperto di gigli; anzi, il deserto con i suoi veleni si espande e cor­rode le terre più belle del nostro paese. Ma quelle sei opere sono l'utopia di un tutt'altro modo di essere uomini, ed è sem­pre l'utopia che fa la storia. Sono le mani di Dio impigliate nel folto della vita. Sono il centro della morale cristiana, che consiste proprio nel fare anche noi ciò che Dio fa', nell'agire io come agisce Dio. […] «Perciò, se riesco ad aiutare una sola per­sona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita. È bello essere popolo fedele di Dio. E acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi!». Gli uomini vogliono seguire il Dio della vi­ta. E se noi siamo capaci di rendere, con Lui, la vita più umana, più bella, più felice, più grande a qualcuno che non ce la fa da solo, allora capiranno chi è il Signore che noi cerchiamo di amare e di incarnare: è dav­vero il Dio amante della vita.

Il Vangelo della Domenica - 4 dicembre 2016

La frase centrale dell'an­nuncio del Battista suo­na così: il regno dei cie­li è vicino, convertitevi. Sono le stesse parole con cui ini­zierà la predicazione di Ge­sù. Dio è vicino, prima buona notizia. […] Avvento è l'annuncio che Dio è vicino, vicino a tutti, rete che raccoglie insieme, in ar­monia, il lupo e l'agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente, uo­mo e donna, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, bianco e nero, per una nuo­va architettura del mondo e dei rapporti umani. Il Regno dei cieli e la terra come Dio la sogna. Non si è ancora rea­lizzata? Non importa, il so­gno di Dio è il nostro futuro che ci chiama. Noi andiamo chiamati dal futuro.La seconda buona notizia: allora la mia vita cambia. Ciò che converte il freddo in calore è la vicinanza del fuo­co. […] Non si torna indenni dall'incontro col fuoco. La forza che cam­bia le persone è una forza non umana, una forza im­mane, il divino in noi, Dio che viene, entra e cresce den­tro. Ciò che mi converte è un pezzetto di Cristo in me. Convertitevi! Più che un or­dine è una opportunità: cambiate strada, azioni, pen­sieri; con me il cielo è più vi­cino e più azzurro, il sole più caldo, il suolo più fertile, e ci sono cento fratelli, e alberi forti, e miele. Con me vivrai solo inizi. Vivrai vento e fuo­co. E frutti buoni. Rivelazione che nella vita il cambiamento è possibile sempre, che nessuna situa­zione è senza uscita, per gra­zia. Il terzo centro dell'annuncio di Giovanni: portate frutti de­gni di conversione. […] Quando Dio si avvicina la vi­ta diventa feconda e nessu­no è più sterile. Dio viene al centro della vita non ai mar­gini di essa (Bonhoeffer). Raggiunge e tocca quella mi­steriosa radice del vivere che ci mantiene diritti come al­beri forti, che permette spe­ranze nonostante le macerie, frumento buono nonostan­te la erbe cattive del nostro campo. Viene nel cuore del­la vita, nella passione e nella fedeltà d'amore, nella fame di giustizia, nella tenacia del­l'onestà, quando mi impe­gno a ridurre la distanza tra il sogno grande dei profeti e il poco che abbiamo fra le mani. Perché il peccato non è trasgredire delle regole, ma trasgredire un sogno. Un so­gno grande come quello di Gesù, bello come quello di I­saia, al centro della vita come quello di Giovanni.

venerdì 9 dicembre 2016

domenica 4 dicembre 2016

L'anno dell'Eucarestia

L’Eucarestia è il segno della misericordia di Gesù che si fa pane da mangiare, perché sia saziata la fame nel cuore di ogni uomo.
Ho cercato una immagine che potesse fare da ponte tra l’Anno della Misericordia e quello dedicato all’Eucarestia che stiamo per iniziare: l’ho trovata nelle mani.
Sono le mani di Gesù che si protendono e si aprono verso tutti, in gesti di accoglienza, di perdono, di guarigione. Sono le mani di Gesù che toccano il lebbroso, gli occhi del cieco, la bocca e le orecchie del sordomuto per ridare dignità, luce, parola.
La misericordia (quest’Anno Santo appena concluso ce lo ha ricordato a più riprese) ha bisogno di mani per tradursi in opere. Certo, ha bisogno anche di occhi che vedano, che si accorgano, che riconoscano; ha bisogno di un cuore che si smuova, che si commuova e provi autentica compassione. E poi di mani che rendano tangibile lo sguardo ed il sentire, nella concretezza dei fatti.
Anche l’Eucarestia ha bisogno di mani.
Sono le mani di Gesù che “prese il pane, lo spezzò, lo diede …”. Anche i gesti eucaristici di Gesù nascono dal suo sguardo che vede le folle affamate, che vede il desiderio nel cuore di ciascuno e scaturiscono dalla sua compassione, dalla sua compartecipazione alla sorte dell’umanità, dell’uomo di sempre, del cuore di ciascuno. E allora ecco le mani di Gesù che prendono il pane e lo spezzano nel gesto del dono, a significare l’offerta della sua vita, e lo distribuiscono perché la fame sia saziata.
“Lo riconobbero allo spezzare il pane”, leggiamo nel vangelo di Luca a proposito dei due discepoli di Emmaus: ma ogni discepolo riconosce il suo Signore allo “spezzare il pane”, nel gesto eucaristico in cui non solo le mani ma anche lo sguardo e il cuore sono coinvolti.
E’ la gestualità, è il linguaggio della misericordia che a tutti si fa incontro, che si approssima a tutta l’umanità nel segno del Dio vicino.
Il Natale che ci apprestiamo a celebrare ci ricorda nuovamente le mani del Padre aperte nel dono del Figlio e le mani del Figlio Gesù, fattosi Bambino, aperte all’accoglienza, alla riconciliazione, al dono. E’ il Dio che si fa “pane”: ce lo ricorda proprio il luogo della Natività: Betlemme, casa del pane.
Al tempo stesso, il Natale di Gesù, ci chiede di aprire le nostre mani, di spezzare il nostro pane, di farci noi stessi pane spezzato nei gesti, concreti e quotidiani, della autentica condivisione.
Un augurio a tutti voi perché possiate celebrare il Natale, nella condivisione del pane eucaristico e del pane terreno.
Il vostro parroco, don Elia, con don Roberto e don Marco

domenica 20 novembre 2016

Il Vangelo della Domenica - 20 novembre 2016


Sta morendo e lo derido­no tutti, lo prendono in giro: «guardatelo, il re!» Sono scandalizzati i devoti, gli uomini religiosi: ma che Dio è questo che lascia morire il suo eletto? Si scandalizzano i sol­dati, gli uomini forti: se sei il re usa la forza! «Salva, salva, salva te stesso!» per tre volte. C'è forse qualcosa che vale più di aver salva la vita? Sì. Qualcosa vale di più: l'amore vale più della vita. E appare un re giustiziato, ma non vinto; un re con una de­risoria corona di spine che muore ostinatamente aman­do; un re che noi possiamo ri­fiutare, ma che non potrà mai più rifiutare noi. E gli si
accostavano per dargli da bere aceto. Il vino nella Bib­bia è il simbolo dell'amore, l'aceto è il suo contrario, il simbolo dell'odio. Tutti odia­no quell'uomo, lo rigettano. Di che cosa hanno bisogno questi che uccidono e deri­dono e odiano il loro re? Di u­na condanna definitiva, del­la pena di morte? No, hanno bisogno di un supplemento d'amore. E Dio si mette in gio­co, si gioca il tutto per tutto per conquistare l'uomo. C'è un malfattore, uno almeno che intuisce e usa una e­spressione rivelatrice: non ve­di che anche lui è nella stessa nostra pena... Dio nel nostro patire, Dio sulla stessa croce dell'uomo, Dio vicinissimo nella passione di ogni uomo. Che entra nella morte perché là va ogni suo figlio. Perché il primo dovere di chi ama è di essere con l'amato. […] E si preoccupa fino all'ul­timo non di sé ma di chi gli muore accanto. Che gli si ag­grappa: Ricordati di me quan­do sarai nel tuo regno. E Gesù non si ricorda, fa molto di più, lo porta con sé, se lo carica sulle spalle come fa il pastore con la pecora perduta e ritro­vata, per riportarla a casa, nel regno: sarai con me! E mentre la logica della nostra storia sembra avanzare per esclu­sioni, per separazioni, per re­spingimenti alle frontiere, il Regno di Dio avanza per in­clusioni, per abbracci, per ac­coglienza. […] Sarai con me: la salvezza è un regalo, non un merito. E se il primo che entra in paradiso è quest'uomo dalla vita sba­gliata, che però sa aggrappar­si al crocifisso amore, allora le porte del cielo resteranno spalancate per sempre per tutti quelli che riconoscono Gesù come loro compagno d'amore e di pena, qualun­que sia il loro passato: è que­sta la Buona Notizia di Gesù Cristo.

Il Vangelo della Domenica - 13 novembre 2016

Con il suo linguaggio a­pocalittico il brano non racconta la fine del mondo, ma il significato, il mistero del mondo. Vange­lo dell'oggi ma anche del do­mani, del domani che si pre­para nell'oggi. Se lo leggiamo attentamente notiamo che ad ogni descri­zione di dolore, segue un punto di rottura dove tutto cambia, un tornante che apre l'orizzonte, la breccia della speranza: non è la fine, alza­te il capo, la vostra liberazio­ne è vicina. Al di là di profeti ingannato­ri, anche se l'odio sarà do­vunque, ecco quella espres­sione struggente: Ma nem­meno un capello del vostro ca­po andrà perduto; ribadita da Matteo 10,30: i vostri capelli sono tutti contati, non abbia­te paura. Nel caos della storia lo sguardo del Signore è fisso su di me, non giudice che in­combe, ma custode innamo­rato di ogni mio frammento. Il vangelo ci conduce sul cri­nale della storia: da un lato il versante oscuro della violen­za, il cuore di tenebra che di­strugge; dall'altro il versante della tenerezza che salva. In questa lotta contro il male, contro la potenza mortifera e omicida presente nella storia e nella natura, " con la vostra perseveranza salverete la vo­stra vita". La vita - l'umano in noi e negli altri - si salva con la perseveranza. Non nel di­simpegno, nel chiamarsi fuo­ri, ma nel tenace, umile, quo­tidiano lavoro che si prende cura della terra e delle sue fe­rite, degli uomini e delle loro lacrime. Scegliendo sempre l'umano contro il disumano (Turoldo). Perseveranza vuol dire: non mi arrendo; nel mondo sem­brano vincere i più violenti, i più crudeli, ma io non mi ar­rendo.Anche quando tutto il lottare contro il male sembra senza esito, io non mi arren­do. Perché so che il filo rosso della storia è saldo nelle ma­ni di Dio. Perché il mondo quale lo conosciamo, col suo ordine fondato sulla for­za e sulla violenza, già co­mincia a essere rovesciato dalle sue stesse logiche. Il Vangelo si chiude con un'ul­tima riga profezia di speran­za: risollevatevi, alzate il ca­po, la vostra liberazione è vi­cina.In piedi, a testa alta, liberi: co­sì vede i discepoli il vangelo. Sollevate il capo, guardate lontano e oltre, perché la realtà non è solo questo che si vede: viene un Liberatore, un Dio esperto di vita.

sabato 5 novembre 2016

Il Vangelo della Domenica - 30 ottobre 2016

Zaccheo ha un handi­cap (la bassa statura) e un desiderio (vedere Gesù) … Nella vita avanza solo chi agi­sce mosso dal desiderio e non dalla paura. Allora corse avanti e salì su di un albero. Correre, sotto l'ur­genza del richiamo di cose lontane, seguendo il vento del desiderio che gonfia le vele. A­vanti, verso il proprio ogget­to d'amore, verso un Dio che viene non dal passato, ma dal­l'avvenire. Sull'albero, in alto, come per leggere se stesso e tutto ciò che accade da un punto di vista più alto.
Gesù passando alzò lo sguar­do. Lo sguardo di Gesù è il so­lo che non si posa mai per pri­ma cosa sui peccati di una persona, ma sempre sulla sua povertà, su ciò che ancora manca ad una vita piena. La sua parola è la sola che non porta ingiunzioni, ma inter­pella la parte migliore di cia­scuno, che nessun peccato ar­riverà mai a cancellare. Zac­cheo cerca di vedere Gesù e scopre che Gesù cerca di ve­dere lui. Il cercatore si accorge di essere cercato, l'amante scopre di essere amato, ed è subito festa: Zaccheo, scendi, oggi devo fermarmi a casa tua. «Devo» dice Gesù, devo fare casa con te per un intimo bi­sogno: a Dio manca qualco­sa, manca Zaccheo, manca l'ultima pecora, manco io. Se Gesù avesse detto: «Zaccheo, ti conosco bene, se restituisci ciò che hai rubato verrò a ca­sa tua», Zaccheo sarebbe ri­masto sull'albero. Se gli aves­se detto: «Zaccheo scendi e andiamo insieme in sinago­ga», non sarebbe successo nulla. Il pubblicano di Gerico prima incontra, poi si con­verte: incontrare uno come Gesù fa credere nell'uomo; in­contrare un uomo così rende liberi; incontrare questo sguardo che ti rivela a te stes­so fa nascere. Scese in fretta e lo accolse pie­no di gioia. Sono poche paro­le: fretta, accogliere, gioia, ma che dicono sulla conversione più di tanti trattati. Apro la ca­sa del cuore a Dio e la gioia e la vita si rimettono in moto. […] Ora può abbracciare tutta intera la sua vita, difetti e generosità, e coprire il male di bene... Oggi mi fermo a casa tua. […] Ognuno ha una dimora da offrire a Dio. E il passaggio del Signore lascerà un segno inconfondibile: un senso di pie­nezza e poi il superamento di sé, uno sconfinare nella gioia e nella condivisione.

Il Vangelo della Domenica - 16 ottobre 2016

Disse una parabola sulla necessità di pre­gare sempre senza stancarsi mai. Il pericolo che minaccia la preghiera è quello della stanchezza: qualche volta, spesso prega­re stanca, anche Dio può stancare. È la stanchezza di scommettere sempre sul­l'invisibile, del grido che non ha risposta, quella che a­vrebbe potuto fiaccare la ve­dova della parabola, alla quale lei non cede. Gesù ha una predilezione particolare per le donne so­le che rappresentano l'inte­ra categoria biblica dei sen­za difesa, vedove orfani po­veri, i suoi prediletti, che e­gli prende in carico e ne fa il collaudo, il laboratorio di un mondo nuovo. Così di que­sta donna sola: c'era un giu­dice corrotto in una città, u­na vedova si recava ogni gior­no da lui e gli chiedeva: fam­mi giustizia contro il mio av­versario! Che bella figura, forte e dignitosa, che nessu­na sconfitta abbatte, fragile e indomita, maestra di pre­ghiera: ogni giorno bussa a quella porta chiusa. Come lei, anche noi: quante pre­ghiere sono volate via senza portare una risposta! Ma al­lora, Dio esaudisce o no le nostre preghiere? «Dio esau­disce sempre: non le nostre richieste, le sue promesse». E il Vangelo ne trabocca: sono venuto per­ché abbiate la vita in pienez­za, non vi lascerò orfani, sarò con voi tutti i giorni fino al­la fine del tempo, il Padre sa di cosa avete bisogno. Con l'immagine della vedo­va mai arresa Gesù vuole so­stenere la nostra fiducia: Se un giudice, che è in tutto al­l'opposto di Dio, alla fine a­scolta, Dio non farà forse giu­stizia ai suoi eletti che grida­no a lui, prontamente? Li farà a lungo aspettare? Ci perdoni il Signore, ma a vol­te la sensazione è proprio questa, che Dio non rispon­da così prontamente e che ci faccia a lungo aspettare. Ma quel prontamente di Ge­sù non si riferisce a una que­stione temporale, non vuol dire «subito», ma «sicura­mente». Il primo miracolo della preghiera è rinsaldare la fede, farla poggiare sulla prima certezza che la para­bola trasmette: Dio è presen­te nella nostra storia, non siamo abbandonati. Dio in­terviene, ma non come io vorrei, come lui vorrà. Se­conda certezza: un granello di senape di fede, una pic­cola vedova che non si lascia fiaccare, abbattono le mura. La preghiera è un «no» gri­dato al «così vanno le cose». […] La preghiera è il respiro del­la fede. […] È il respiro della vita, co­me per due che si amano, il respiro del loro amore.

domenica 9 ottobre 2016

La Sagra di San Fereolo

Qui trovi le foto della giornata di Sagra.


Il Vangelo della Domenica - 9 ottobre 2016

Dieci lebbrosi «fermi a distanza»; mani lontane, cui non è più lecito neppure accarezzare un figlio, solo occhi e voce: «Gesù, abbi pietà. E appena li vede – subito, senza aspettare un secondo di più, troppo a lungo hanno sofferto – dice: Andate dai sacerdoti». È finita. Andate. Siete già guariti, anche se ancora non lo vedete. Il futuro è entrato in voi con il primo passo, come un seme, come una profezia.[…] E mentre andavano furono guariti. Partono per un viaggio che era loro vietato: la lebbra è ancora evidente, ma più evidente è la speranza; la promessa è più forte di piaghe e di paure. Si mettono in cammino tutti e dieci, tutti hanno fede nella parola di Gesù, partono e la strada è già guarigione. Ma uno solo passa da semplice guarito a salvato, l'unico che ritorna, cui Gesù dice: «la tua fede ti ha salvato». Il Vangelo è pieno di guariti, sono il corteo gioioso che accompagna l'annuncio di Gesù. Eppure quanti di questi guariti sono anche salvati? A quanti il rifiorire della carne fa fiorire relazioni nuove con Dio, con gli uomini, con se stessi? Ai nove che non tornano è sufficiente la guarigione. Non tornano, forse perché smarriti nel vortice della loro felicità, negli abbracci ritrovati. E Dio prova gioia per la loro gioia, come prima aveva provato dolore per il loro dolore. Non tornano forse perché sentono la salute come qualcosa che è loro dovuto, non come un dono; come un diritto, non come un miracolo. Ogni miracolo è però una storia incompiuta, una storia che inizia: l'uomo non è solo il proprio corpo. La sua pienezza consiste nel passare da semplice guarito a salvato, nel trovare la «vita piena» entrando in comunione con il Donatore e non solo con i suoi doni. Il Donatore ha se stesso da donare. Nulla di meno. E la sua vita nella tua vita. Nell'unico che è tornato, importante non è tanto l'atto di ringraziamento, quasi che Dio fosse in cerca del nostro grazie, bisognoso di contraccambio; il lebbroso di Samaria è salvo non perché paga il pedaggio, pur santo, della gratitudine, ma perché entra in comunione. Con il proprio corpo, con i propri sentimenti, con il Signore. «E rende gloria a Dio». […]Davvero vivente è solo il samaritano: il doppiamente escluso, che segue più il suo cuore che non le prescrizioni della legge, come gli altri nove, e interrompe il viaggio, torna indietro, canta per la strada, si butta ai piedi di Gesù, gli grida il suo grazie. Gloria di Dio è solo lui, ritornato uomo e ritornato figlio.

Il Vangelo della Domenica - 2 ottobre 2016

Gesù ha appena avanza­to la sua proposta: uni­ca misura del perdono è perdonare senza misura, che agli Apostoli appare un obietti­vo inarrivabile, al di là delle lo­ro forze, e sgorga spontanea la richiesta: accresci in noi la fede. Da soli non ce la faremo mai. Gesù però non esaudisce la ri­chiesta, perché non tocca a Dio aggiungere, accrescere, au­mentare la fede, non può farlo: essa è la libera risposta dell'uo­mo al corteggiamento di Dio. Gesù cambia la prospettiva da cui guardare la fede, introdu­cendo come unità di misura il granello di senape, proverbial­mente il più piccolo di tutti i semi: non si tratta di quantità, ma di qualità della fede. Fede come granello, come briciola; non quella sicura e spavalda ma quella che, nella sua fragi­lità, ha ancora più bisogno di Lui, che per la propria picco­lezza ha ancora più fiducia nel­la sua forza. Allora ne basta un granello, po­ca, anzi meno di poca, per ot­tenere risultati impensabili. La fede è un niente che è tutto. Leggera e forte. Ha la forza di sradicare alberi e la leggerezza di farli volare sul mare: se aveste fede come un granello di se­nape, potrete dire a questo gel­so sradicati. […] Segue poi una piccola pa­rabola sul rapporto tra padro­ne e servo, che inizia come una fotografia della realtà: Chi di voi, se ha un servo ad arare, gli dirà, quando rientra: Vieni e mettiti a tavola? E che termina con una proposta spiazzante, nello sti­le tipico del Signore: Quando a­vete fatto tutto dite: siamo servi inutili. Capiamo bene: servo i­nutile significa non determi­nante, non decisivo; indica che la forza che fa crescere il seme non appartiene al seminatore; che la forza che converte non sta nel predicatore, ma nella Pa­rola. Allora capisco che chiedere «ac­cresci la mia fede» significa do­mandare che questa forza vivi­ficante entri come linfa nelle vene del cuore. Servo inutile è colui che, in una società che pensa solo all'utile, scommette sulla gratuità, sen­za cercare il proprio vantaggio, senza vantare meriti. La sua gioia è servire la vita, custo­dendo con tenerezza coloro che gli sono affidati. Mai nel Vangelo è detto inutile il servi­zio, anzi esso è il nome nuovo, il nome segreto della civiltà. È il nome dell'opera compiuta da Gesù, venuto per servire, non per essere servito.

domenica 25 settembre 2016

30 anni di Oratorio: la celebrazione e la festa

Sono iniziate le manifestazioni per ricordare i 30 anni del nuovo oratorio di San Fereolo: sabato 24 settembre, presieduta da sua Ecc. Mons. Giuseppe Merisi, Vescovo Emerito di Lodi, è stata concelebrata la S. Messa con tutti gli assistenti che in questi anni si sono succeduti alla guida dell'oratorio.

Domenica 25 settembre invece, con la partecipazione di quasi 200 ragazzi e loro familiari, per le vie e le piazze del quartiere, grande successo ha avuto la 1a edizione dei "Giochi Senza Quartiere".
Segui i link per vedere le foto dei due momenti.

Il Vangelo della Domenica - 25 settembre 2016

C'era una volta un ricco... La parabola del ricco senza no­me e del povero Lazzaro ini­zia con il tono di una favola e si svolge con il sapore di un a­pologo morale: c'è uno che si gode la vita, un superficiale spensierato, al quale ben pre­sto la vita stessa presenta il conto. Il cuore della parabo­la non sta però in una sorta di capovolgimento nell'aldilà: chi patisce in terra godrà nel cielo e chi gode in questa vi­ta soffrirà nell'altra. Il mes­saggio è racchiuso in una pa­rola posta sulla bocca di A­bramo, la parola 'abisso', un grande abisso è stabilito tra noi e voi. Questo baratro separava i due personaggi già in terra: uno affamato e l'altro sazio, uno in salute e l'altro coperto di piaghe, uno che vive in stra­da l'altro al sicuro in una bel­la casa. Il ricco poteva colmare il baratro che lo separa­va dal povero e invece l'ha ra­tificato e reso eterno. L'eter­nità inizia quaggiù, l'inferno non sarà la sentenza improv­visa di un despota, ma la len­ta maturazione delle nostre scelte senza cuore. Che cosa ha fatto il ricco di male? La parabola non è mo­ralistica, non si leva contro la cultura della bella casa, del ben vestire, non condanna la buona tavola. Il ricco non ha neppure infierito sul povero, non lo ha umiliato, forse era perfino uno che osservava tutti i dieci comandamenti. Lo sbaglio della sua vita è di non essersi neppure accorto dell'esistenza di Lazzaro. Non lo vede, non gli parla, non lo tocca: Lazzaro non esiste, non c'è, non lo riguarda. Que­sto è il comportamento che san Giovanni chiama, senza giri di parole, omicidio: chi non ama è omicida. Tocchiamo qui uno dei cuori del Vangelo, il cui batti­to arriva fino al giorno del giu­dizio finale: Avevo fame, ave­vo freddo, ero solo, abbando­nato, l'ultimo, e tu hai spez­zato il pane, hai asciugato u­na lacrima, mi hai regalato un sorso di vita. Nella parabola Dio non è mai nominato, eppure intuiamo che era lì presente, pronto a contare ad una ad una tutte le briciole date al povero Lazza­ro e a ricordarle per sempre, tutte le parole, ogni singolo gesto di cura, tutto ciò che poteva regalare a quel nau­frago della vita dignità e ri­spetto, riportare uomo fra gli uomini colui che era solo un'ombra fra i cani. Perché il cammino della fede inizia dalle piaghe del povero, car­ne di Cristo, corpo di Dio.

sabato 24 settembre 2016

Il Vangelo della Domenica - 18 settembre 2016

La parabola del fattore infedele si chiude con un messaggio sor­prendente: l'uomo ricco loda il suo truffatore. Sor­preso a rubare, l'ammini­stratore capisce che verrà licenziato e allora escogi­ta un modo per cavarsela, un modo geniale: adotta la strategia dell'amicizia, creare una rete di amici, cancellando parte dei lo­ro debiti. Con questa scel­ta, inconsapevolmente, e­gli compie un gesto profe­tico, fa ciò che Dio fa ver­so ogni uomo: dona e per­dona, rimette i nostri de­biti. Così da malfattore di­venta benefattore: regala pane, olio, cioè vita, ai de­bitori. Lo fa per interesse, certo, ma intanto cambia il senso, rovescia la dire­zione del denaro, che non va più verso l'accumulo ma verso il dono, non ge­nera più esclusione ma a­micizia. Il personaggio più interes­sante della parabola, su cui fermare l'attenzione, è il ricco, figura di un Signore sorprendente: il padro­ne lodò quell'amministra­tore disonesto, perché ave­va agito con scaltrezza, aveva puntato tutto sull'a­micizia. Qui il Vangelo re­gala una perla: fatevi degli amici con la disonesta ricchezza perché quando es­sa verrà a mancare vi ac­colgano nelle dimore eter­ne. Fatevi degli amici […] che vi accolgano nel­la casa del cielo: prima di Dio ci verranno incontro coloro che abbiamo aiutato, nel loro abbraccio ri­conoscente si annuncerà l'abbraccio di Dio, dentro un paradiso generato dal­le nostre scelte di vita. Nessuno può servire due padroni. Non potete servi­re Dio e la ricchezza. Af­fermazione netta: il dena­ro e ogni altro bene mate­riale, sono solo dei mezzi utili per crescere nell'a­more e nella amicizia. So­no ottimi servitori ma pes­simi padroni. Il denaro non è in sé cattivo, ma può diventare un idolo e gli i­doli sono crudeli perché si nutrono di carne umana, aggrediscono le fibre inti­me dell'umano, mangiano il cuore. […] La parabola inverte il pa­radigma economico su cui si basa la società contem­poranea: è il mercato che detta legge, l'obiettivo è u­na crescita infinita, più de­naro è bene, meno dena­ro è male. Se invece legge comune fossero la so­brietà e la solidarietà, la condivisione e la cura del creato, non l'accumulo ma l'amicizia, crescerebbe la vita buona.

Altrimenti nessun povero ci sarà che apra le porte della casa del cielo, che a­pra cioè fessure per il nascere di un mondo nuovo.

Il Vangelo della Domenica - 11 settembre 2016

Un uomo aveva due figli. Questo inizio, semplicissimo e favoloso, apre la parabola più bella, e nessuna pagina al mondo raggiunge come questa la struttura stessa del nostro vivere, nessuna lascia intravedere come questa il cuore stesso di Dio. Si è persa una pecora, si perde una dracma, si perde un figlio. Si direbbero quasi delle sconfitte di Dio. E invece l'amore vince proprio perdendosi dietro a chi si era perduto. Io voglio bene al prodigo. Il prodigo è storia di tutti, questa crisi del ribelle l'abbiamo tutti vissuta, e spesso il gesto di rivolta non era che il preludio a una dichiarazione d'amore. Ma il prodigo si trova a pascolare i porci. Il libero ribelle è diventato servo, ha fame, «può rubare le ghiande ai porci, ma non può accontentarsi, come loro, delle sole ghiande. L'uomo nasce con il cuore malato di cose lontane. Si ricorda del pane di casa e si mette in cammino verso suo padre. A Dio non importa il motivo per cui ritorni, se per il pane o per il padre, a Lui basta che tu ti metta in viaggio e ti «vede quando sei ancora lontano», ti corre incontro, ti si getta al collo, non ti lascia parlare, per salvarti dal tuo cuore quando il cuore ti accusi, per salvarti anche dalla tentazione di appesantirti del tuo passato. Il Padre non guarda indietro, non chiede pentimenti, a lui non interessa né giudicare né assolvere, ma aprire un futuro nuovo. Vuole salvare il figlio fallito che si accontenta di essere un garzone, vuole salvarlo da se stesso, dal suo cuore di servo, restituendogli un cuore di figlio. Non saranno mai né penitenza, né paura, né rimorso a liberare l'uomo dal suo male profondo, ma un "di più" di vita, l'abbraccio e la festa di un Padre più grande del nostro cuore. Il fratello maggiore torna dal suo lavoro ed entra in crisi; virtuoso e infelice, perché misura tutto sulle prestazioni, sulla contabilità del dare e dell'avere: «Io ti ho sempre ubbidito, e tu non mi hai dato neanche un capretto». Sono le parole di chi ha osservato le regole, ma come un salariato; è la confessione di un fallito, che ha fatto il bene ma sognando in cuor suo tutt'altra vita. Onesto ma infelice, perché il suo cuore è assente. Ma il padre vuole salvare anche lui dal suo cuore di servo: «Tu sei sempre con me, tutto ciò che è mio è tuo». Avrà capito? Padre, non sono degno, ma mi prendo lo stesso il tuo abbraccio, la tua veste nuova, la tua festa. Sono il tuo figlio. Grazie di essere Padre a questo modo, un modo davvero divino.

domenica 4 settembre 2016

Giochi senza quartiere!

Giochi Senza Quartiere è il titolo del grande gioco a squadre che coinvolgerà insieme grandi e piccoli per festeggiare il compleanno del nostro oratorio. Così nel pomeriggio di domenica 25 settembre il nostro quartiere si trasformerà in un’arena itinerante dove adulti e ragazzi si sfideranno in appassionanti e divertenti sfide. 
Giocheremo per il quartiere per permettere a tutti di partecipare e di divertirsi, spettatori e giocatori. Il gioco si snoderà in 5 prove oltre ad un ripetitivo “fil rouge” (vi ricordate i mitici giochi senza frontiere?); e naturalmente non mancherà la possibilità di giocare il “jolly” per raddoppiare il punteggio della prova. Il gioco partirà dall’oratorio di Robadello e si concluderà all’oratorio di San Fereolo facendo tappa in piazza Omegna, al parco Amico di via san Fereolo e al parcheggio della scuola Arcobaleno.
Collegandovi ai social indicati nella locandina sarete aggiornati in tempo reale su regolamento e appuntamenti preparatori. Qui di seguito in sintesi le prime informazioni.

Quando?
Domenica 25 settembre dalle ore 15,30 alle ore18,30.

Chi può partecipare?
Tutti, adulti e ragazzi, maschi e femmine, fino ai nati nel 2004 compresi.

Le squadre
Saranno composte da un minimo di 12 ad un massimo di 15 componenti e tra questi almeno 5 femmine e 3 ragazzi/e di età inferiore a 18 anni.

Iscrizioni
Ci si può iscrivere come squadra, a gruppi, singolarmente. Gli iscritti come gruppi e singolarmente saranno poi inseriti nelle squadre. Quota partecipazione 3,00 euro a persona (2,00 euro per ragazzi/e al di sotto dei 18 anni).
Per aggiornamenti informazioni e iscrizioni contattateci ai seguenti recapiti telefonici:
Paolo 335.62.38.261
Mauro 338.36.71.496
Maurizio 338.37.17.077 
Oppure inviate una mail all’indirizzo: sanfereolo.gsf@gmail.com

A partire dalla fine di agosto tutte le informazioni saranno aggiornate su internet, www.sanfereololodi.blogspot.it; su Facebook digitando “San Fereolo Giochi Senza Quartiere”, su twitter all’hastag #sanfereoloGSQ. 
Domenica 11 settembre in occasione della Straoratorio un punto informativo sarà a disposizione per tutte le informazioni. 
Vi aspettiamo numerosissimi!

sabato 3 settembre 2016

Un anno sull'Eucarestia

Non è da molto che la nostra comunità ha posto al centro della sua attenzione e riflessione la realtà dell’Eucarestia dedicandovi un anno pastorale. Lo faremo anche quest’anno accogliendo l’invito del vescovo, in concomitanza con il Congresso Eucaristico Nazionale, che si terrà a Genova dal 15 al 18 settembre prossimi, dal tema: “L’Eucarestia sorgente della missione: nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro”.
Non sarà una sterile ripetizione perché l’Eucarestia merita di essere posta al centro sempre e non saranno mai sufficienti la riflessione e l’attenzione affinché possa maturare nei credenti una soda spiritualità eucaristica che è spiritualità di comunione, di dedizione, di apertura missionaria.
Presento, pertanto, brevi linee di riflessione che possano introdurre il percorso partendo dall’icona evangelica di Luca 24, che narra la vicenda dei discepoli di Emmaus, e da un’opera artistica di un autore francese, Arcabas, (Jean Marie Pirot), dal titolo: “Ciclo di Emmaus”, custodito nella chiesa della Risurrezione di Torre de’ Roveri (BG).

L’EUCARESTIA: UN GIORNO
Il primo riferimento è che l’Eucarestia si celebra in un giorno speciale: la domenica. Certo, si celebra tutti i giorni, ma la domenica, Pasqua della settimana, è per antonomasia il giorno dell’Eucarestia. “La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato …”. E’ la Pasqua e ogni Eucarestia domenicale è celebrazione della Pasqua.
Non è indifferente che la nostra settimana sia ritmata sul ritmo domenicale e che la domenica sia il primo giorno della settimana: c’è un giorno diverso dagli altri giorni che dovrebbe aiutarci a recuperare il senso della fatica e del cammino quotidiano facendoci riscoprire e ricordandoci che c’è una dimensione religiosa della vita, una presenza, quella di Dio che ci consente di dare pienezza di significato al nostro vivere. Non a caso la domenica è chiamata anche l’”ottavo giorno”, perché, oltre il ritmo settenario del tempo, ci proietta in un tempo “ulteriore”: quello di Dio, che è già qui, presente, in mezzo a noi.
Da tempo la domenica è diventata il giorno per fare tutt’altro: sembra che la celebrazione eucaristica non riesca a trovarvi collocazione … ma, senza nulla togliere alla legittimità e necessità di momenti di riposo e di svago, invito a riscoprire, a rimotivare e a scegliere nuovamente di celebrare insieme l’Eucarestia domenicale, perché i nostri giorni e il nostro lavoro, le relazioni possano beneficiarne.

L’EUCARESTIA: UN RITO
Il secondo riferimento è che l’Eucarestia è un rito.
Dobbiamo intenderci bene sul significato del termine perché qualcuno tende a svalutare i riti come qualcosa di sterile, noioso ed estraneo alla vita.
Il rito, invece, nella sua corretta comprensione, è qualcosa di necessario alla vita, addirittura indispensabile. Ce lo ricordano i riti della vita quotidiana: un caffè bevuto in compagnia … il bacio alla persona cara prima di andare al lavoro … la buonanotte etc. ...: gesti e parole di una semplicità disarmante, che si ripetono con regolarità per esprimere cose straordinarie: ti voglio bene, ti amo, ti ricordo, sei importante per me … Normalmente il linguaggio dell’amore passa attraverso i riti.
Con le dovute distinzioni il rito per eccellenza, che è l’Eucarestia, è la ripetizione di gesti e parole, quelli di Gesù nell’Ultima Cena, che non solo ci ricordano, ma riattualizzano, rendono presente per noi il suo mistero di donazione e di amore.
La logica del rito, nella ripetizione di gesti e parole, è la conferma che il Signore Gesù ci offre ogni domenica, per dirci: ti voglio bene, tu sei importante per me, tu mi interessi, mi dono a te. 
E di questa conferma, quanto abbiamo bisogno, tutti! 

L’EUCARESTIA: UN DONO
C’è un gesto particolare con il quale, fin dalle primissime comunità cristiane, si definiva la celebrazione dell’Eucarestia: spezzare il pane. I due discepoli, proprio in questo gesto, riconoscono Gesù presente e vivo. Spezzare il pane ci rimanda alla vita di Gesù che si è fatto dono; è sinonimo di donare, di vita donata: lo è per Gesù e deve esserlo anche per ciascuno di noi.
Celebrare l’Eucarestia, spezzando il pane, significa riconoscere e accogliere il dono che è Gesù e accettare di fare della nostra vita un dono, un pane spezzato per il bene di tutti.
L’Eucarestia non è un bene solo per me; non posso celebrare l’Eucarestia senza la disposizione del cuore a divenire io stesso pane spezzato, vita donata.

L’EUCARESTIA: UN MANDATO
L’ultima indicazione è quella che ci fa alzare dalla tavola eucaristica, ci fa uscire dal “cenacolo” e ci manda: agli altri, alla città degli uomini, al mondo, alla storia.
L’Eucarestia è sempre un mandato: siamo convocati per essere mandati. Ci riuniamo come fratelli in assemblea per “disperderci” nella quotidianità della vita, in mille rivoli che possano portare all’umanità in attesa un po’ di quella forza, di quella gioia, di quella pace che la Parola e il Pane ci donano. Sarebbe un vero controsenso se la nostra Eucarestia si concludesse dentro le mura delle nostre chiese e non si prolungasse, invece, nei giorni della settimana, negli spazi della vita, negli incontri con le persone.
L’immagine che ci accompagna ci presenta la tavola ormai deserta, le porte spalancate su un cielo stellato che accende la speranza: fuori c’è un mondo, un’umanità che attende il Pane, la Parola e gesti autentici di fraternità che possano aiutare a restituire senso e dignità al vivere.
Dall’Eucarestia bisogna alzarsi e andare, come testimoni dell’amore.

Il Vangelo della Domenica - 4 settembre 2016

Gesù, vedendo la folla numerosa che lo se­gue, si volta per met­terla in guardia, chiarendo be­ne che cosa comporti andare dietro a lui. Gesù non illude mai, non strumentalizza en­tusiasmi o debolezze, vuole invece adesioni meditate, mature e libere. Perché alla quantità di discepoli preferi­sce la qualità. E indica tre con­dizioni per seguirlo. Radicali. Se uno viene a me e non mi a­ma più di quanto ami suo pa­dre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Parole che sembrano dure, eccessive, le diresti la croci­fissione del cuore, con i suoi affetti, e invece ne sono la ri­surrezione. Infatti il verbo centrale su cui poggia tutta l'architettura della frase è: se uno non mi ama di più... Non si tratta di una sottrazione, ma di una addizione. Gesù non ruba amori, aggiunge un 'di più'. Il discepolo è colui che sulla luce dei suoi amori sten­de una luce più grande. E il ri­sultato che ottiene non è u­na limitazione ma un po­tenziamento. Dice Gesù: Tu sai quanto è bello dare e ricevere amore, quanto con­tano gli affetti, io posso of­frirti qualcosa di ancora più bello. Gesù è il sigillo, la ga­ranzia che se stai con Lui, se lo tieni con te, i tuoi amori saranno custoditi più vivi e più luminosi. Seconda condizione: Colui che non porta la propria cro­ce e non viene dietro a me, non può essere mio discepo­lo. La croce: e noi la pensiamo metafora delle inevitabili dif­ficoltà di ogni giorno, dei pro­blemi della famiglia, della ma­lattia da sopportare. Ma nel Vangelo la parola 'croce' contiene il vertice e il rias­sunto della vicenda di Gesù. Croce è: amore senza misura e senza rimpianti, disarmato amore che non si arrende, non inganna e non tradisce. Che va fino alla fine. Gesù possiede la chiave dell'anda­re fino in fondo alle ragioni dell'amore. Allora le due prime condi­zioni: Amare di più e portare la croce si illuminano a vi­cenda. Prendi su di te una porzione grande di amore, altrimenti non vivi; prendi la porzione di dolore che ogni amore comporta, altrimenti non ami. La terza condizione: chiun­que di voi non rinuncia a tut­ti i suoi averi, non può essere mio discepolo. La rinuncia che Gesù chiede non è innanzi­tutto un sacrificio ascetico, ma un atto di libertà: esci dal­l' ansia di possedere, dalla il­lusione che ti fa dire: «io ho, accumulo, e quindi sono e valgo». Un uomo non vale mai per quanto possiede, o per il colore della sua pelle, ma per la qualità dei suoi sentimenti (M.L. King). Lascia giù le cose e prendi su di te la qualità dei sentimen­ti. Impara non ad avere di più, ma ad amare di più.

Il Vangelo della Domenica - 28 agosto 2016

Gesù amava i banchetti, li adottava a simbolo della fraternità e a pul­pito del suo annuncio di un Dio e un mondo nuovi. Invi­tarlo però era correre un bel rischio, il rischio di gesti e pa­role capaci di mettere sottosopra la cena, di mandare in crisi padroni e invitati. Ed ecco che, presso un capo dei farisei, diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti, no­tando come entrare nella sala era entrare in un clima di competizione, osservando co­me si dissolveva in invidie e rancori il senso della cena in­sieme che è la condivisione. Vedendo la corsa ai primi po­sti, reagisce opponendo a quella ricerca di potere un ge­sto eloquente e creativo: Quando sei invitato va a met­terti all'ultimo posto. Ma non per umiltà, non per modestia, ma per creare fraternità, per dire all'altro: prima tu e dopo io; tu sei più importante di me; vado all'ultimo posto non perché io non valgo niente, ma perché tu, fratello, sia servito per primo e meglio. L'ultimo posto non è una condanna, è il posto di Dio, venuto per ser­vire e non per essere servito. All'ultimo posto non per umiltà ma per rovesciare, per invertire la sca­la di valori su cui poggia la nostra convivenza e per delinea­re un altro modo di abitare la terra. E poi, rivolto a colui che l'ave­va invitato, aggiunge: Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini. Sono i legami normali che garantiscono l'eterno equilibrio del dare e del­l'avere, la difesa dei tuoi beni e gli interessi del tuo gruppo; sono i legami che tengono in­sieme un mondo che si difen­de e si protegge, che segue la legge un po' gretta della reci­procità e del baratto, e che non crea inclusione.
Ma c'è, alla periferia del tuo, un altro mondo, e ti riguarda: Quando offri una cena invita poveri, storpi, zoppi, ciechi. Ac­cogli quelli che nessuno ac­coglie, crea comunione con chi è escluso dalla comunio­ne, dona senza contraccam­bio, dona in perdita a coloro che davvero hanno bisogno e non possono restituire nien­te. Gesù ha un sogno: un mon­do dove nessuno è escluso, u­na città da costruire partendo dalle periferie, dagli ultimi del­la fila, dagli uomini del pane a­maro.
È la legge della vi­ta: per star bene l'uomo deve dare, amando per primo, in perdita, senza contraccambio. Sarai beato: perché Dio rega­la gioia a chi produce amore.

Il Vangelo della Domenica - 21 agosto 2016

Sforzatevi di entrare per la porta stretta. Per la porta larga vuole passare chi crede di avere addosso l'odo­re di Dio, preso tra incensi, riti e preghiere, e di questo si vanta. Per la porta stretta entra «chi ha addosso l'o­dore delle pecore» (papa Francesco), l'operaio di Dio con le mani segnate dal lavoro, dal cuore buono. È la porta del servizio.
Quando il padrone di casa chiuderà la porta, voi bus­serete: Signore aprici. E lui: non so di dove siete, non vi conosco. Avete false credenziali. Infatti quelli che vo­gliono entrare si vantano di cose poco significative: ab­biamo mangiato e bevuto con te, eravamo in piazza ad ascoltarti... ma questo può essere solo un alibi, non si­gnifica che abbiano accolto davvero il suo Vangelo. La sua Parola è vera solo se diventa carne e sangue. A mol­ti contemporanei di Gesù succedeva proprio questo: di sedere a mensa con lui, ascoltarlo parlare, emozionar­si, ma tutto finiva lì, non ne avevano la vita trasforma­ta. Così noi possiamo partecipare a messe, ascoltare prediche, dirci cristiani, difendere la croce come simbolo di una civiltà, ma tutto questo non basta. La mi­sura è nella vita. La fede autentica scende in quel tuo profondo dove nascono le azioni, i pensieri, i sogni, e da là erompe a plasmare tutta intera la tua vita, tutte le tue relazioni. Perché le cose di Dio e le cose dell'uomo sono indissolubili. Infatti quelli che bussano alla por­ta chiusa hanno compiuto sì azioni per Dio, ma nes­suna azione per i fratelli. Non basta mangiare Gesù che è il pane, occorre farsi pane. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia. Non vi conosco. Il riconoscimento sta nella giustizia. Dio non ti riconosce per formule, riti o simboli, ma per­ché hai mani di giustizia. Ti ri­conosce non perché fai delle cose per lui, ma perché con lui e come lui fai delle cose per gli altri. Non so di dove siete: i vo­stri modi di vedere gli altri so­no lontanissimi dai miei, voi venite da un mondo diverso rispetto al mio, da un altro pia­neta. La conclusione della parabo­la è piena di sorprese. Prima di tutto è sfatata l'idea della por­ta stretta come porta per po­chi, per i più bravi: tutti possono passare. Oltre quella porta Gesù immagina una festa multicolore: verranno da oriente e occidente, dal nord e dal sud del mondo e siederanno a mensa. Il sogno di Dio: far sorgere figli da ogni dove. Li raccoglie, per una offerta di felicità, da tutti gli angoli del mondo, variopinti clandestini del re­gno, arrivati ultimi e da lui considerati primi. Gesù li riconosce dall'odore, lui che con le pecore sper­dute, sofferenti, malate si è mischiato per tutta la vita. Li riconosce perché sanno il suo stesso odore.

venerdì 12 agosto 2016

Il Vangelo della Domenica - 14 agosto 2016

Viene […] il Signore per comunicarci ancora una volta l'urgenza dell'annuncio del regno: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!». È il fuoco dell'amore di Dio che brucia anzitutto nel cuore stesso di Gesù e che si intravede almeno un poco nelle parole che rivolge ai discepoli: «E come vorrei che fosse già acceso!». È un desiderio struggente, quasi angosciato: «Come vorrei che fosse già acceso!». L'urgenza evangelica è lasciarsi coinvolgere da questa passione; è lasciarsi bruciare da questo ardente desiderio di Gesù. Quanto sono meschine le nostre passioni! Quanto piene di avarizia le nostre angosce! Oggi, giorno del Signore, veniamo liberati dalle piccole ma resistenti angustie della nostra vita, per ricevere il cuore stesso del Vangelo. Un cuore dolce e sconvolgente, pieno di amore e per questo esigente. Gesù stesso ne spiega il senso: «Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la di­visione...». Sono parole che noi difficilmente avremmo posto in bocca a Gesù. Ma il Vangelo è diverso da noi e dal mondo; diverso dalla pace avara del ricco epulone che non vedeva neppure il povero Lazzaro affamato davanti alla sua porta; diverso dalla pace egoista del proprio dovere come il sacerdote e il levita, i quali, pur vedendo l'uomo mezzo morto lungo la strada, passano oltre. La pace vera è tutt'altro che tranquillità avara. Il Signore, solo dopo la risurrezione, solo dopo aver vissuto il dramma della passione che fu tutt'altro che pace e tranquillità, disse ai discepoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace». La pace del Signore consiste nel fare la volontà di Dio. La pace è il Vangelo. E il vangelo divide; ha diviso, in certo modo, la stessa vita di Gesù, quando appena ragazzo lasciò la mamma e il papà: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» rispose ai genitori che angosciati lo stavano «giustamente» rimproverando. Il vangelo lo divise dalla periferica Nazaret per recarsi nel deserto di Giovanni Battista; lo divise dai discepoli a Cafarnao nel discorso del pane, quando rivolto ai Dodici disse: «Volete andarvene anche voi?»; lo divise da Pietro: «Vattene, lontano da me, satana»; lo divise dagli 'scribi e farisei... Il vangelo lo divise nell'agonia al Getsemani: «Non la mia, ma la tua volontà sia fatta». Gesù insegna per primo che la pace sta nell'ascolto del vangelo e nel metterlo in pratica. Il vangelo è la nostra pace e la nostra felicità.

Il Vangelo della Domenica - 7 agosto 2016


La parabola del signore e dei servi è scandita in tre mo­menti. Tutto prende avvio per l'assenza del signore, che se ne va e affida la casa ai suoi servi. Così Dio ha consegnato a noi il creato, come in prin­cipio l'Eden ad Adamo. Ci ha affidato la casa grande che è il mondo, perché ne siamo cu­stodi con tutte le sue creatu­re. E se ne va. Dio, il grande as­sente, che crea e poi si ritira dalla sua creazione. La sua as­senza ci pesa, eppure è la ga­ranzia della nostra libertà. Se Dio fosse qui visibile, inevita­bile, incombente, chi si muo­verebbe più? Un Dio che si im­pone sarà anche obbedito, ma non sarà amato da liberi figli.
Secondo momento: nella not­te i servi vegliano e attendono il padrone; hanno cinti i fian­chi, cioè sono pronti ad acco­glierlo, a essere interamente per lui. Hanno le lucerne ac­cese, perché è notte. Anche quando è notte, quando le ombre si mettono in via; quando la fatica è tanta, quan­do la disperazione fa pressio­ne alla porta del cuore, non mollare, continua a lavorare con amore e attenzione per la tua famiglia, la tua comunità, il tuo Paese, la madre terra. Con quel poco che hai, come puoi, meglio che puoi. Vale molto di più accendere una piccola lampada nella notte che imprecare contro tutto il buio che ci circonda.
Perché poi arriva il terzo mo­mento. E se tornando il pa­drone li troverà svegli, beati quei servi (si attende così so­lo se si ama e si desidera, e non si vede l'ora che giunga il mo­mento degli abbracci). In ve­rità vi dico, - quando dice co­sì assicura qualcosa di impor­tante -li farà mettere a tavola e passerà a servirli. È il capo­volgimento dell'idea di pa­drone: il punto commovente, sublime di questo racconto, il momento straordinario, quando accade l'impensabi­le: il signore si mette a fare il servo! Dio viene e si pone a servizio della mia felicità! Gesù ribadisce due volte, per­ché si imprima bene, l'atteg­giamento sorprendente del si­gnore: e passerà a servirli. È l'immagine clamorosa che so­lo Gesù ha osato, di Dio no­stro servitore, che solo lui ha mostrato cingendo un asciu­gamano. Questo Dio è il solo che io ser­virò, tutti i giorni e tutte le not­ti della mia vita. Il solo che ser­virò perché è il solo che si è fatto mio servitore.

Il Vangelo della Domenica - 24 luglio 2016

«Signore insegnaci a pregare!». Non tanto: insegnaci delle preghiere, delle for­mule o dei riti, ma: insegna­ci il cuore della preghiera, mostraci come si arrivi da­vanti a Dio. Nel linguaggio corrente la parola «pregare» indica l'in­sistere, il convincere qual­cuno, il portarlo a cambiare atteggiamento. Per Gesù no, pregare è riattaccarsi di nuo­vo a Dio, come si attacca la bocca alla fontana. Per Gesù, pregare equivale a creare legami, evocando no­mi e volti, primo fra tutti quello del Padre: «quando pregate, dite: Padre». Tutte le preghiere di Gesù riportate dai Vangeli ini­ziano con lo stesso termine «Padre», la parola migliore con cui stare davanti a Dio, con cuore fanciullo e adulto insieme, quella che contie­ne più vita di qualsiasi altra. Padre, fonte sorgiva di ogni vita, di ogni bontà, di ogni bellezza, un Dio che non si impone ma che sa di ab­bracci; un Dio affettuoso, vi­cino, caldo, cui chiedere, da fratelli, le poche cose indi­spensabili per ripartire ad o­gni alba a caccia di vita. E la prima cosa da chiedere: che il tuo nome sia santifi­cato. Il nome contiene, nel linguaggio biblico, tutta la persona: è come chiedere Dio a Dio, chiedere che Dio ci doni Dio. Perché «Dio non può dare nulla di meno di se stesso», «ma, dandoci se stesso, ci dà tutto!». Venga il tuo regno, nasca la terra nuova come tu la so­gni, la nuova architettura del mondo e dei rapporti uma­ni che il Vangelo ha semina­to. Dacci il pane nostro quoti­diano. Dona a noi tutti ciò che ci fa vivere, il pane e l'a­more, entrambi indispensa­bili per la vita piena, necessari giorno per giorno. E perdona i nostri peccati, to­gli tutto ciò che invecchia il cuore e lo rinchiude; dona la forza per salpare di nuovo ad ogni alba verso terre in­tatte. Libera il futuro. E noi, che adesso conosciamo co­me il perdono potenzia la vi­ta, lo doneremo ai nostri fra­telli, e a noi stessi, per tor­nare leggeri a costruire di nuovo, insieme, la pace. Non abbandonarci alla ten­tazione. Non ti chiediamo di essere esentati dalla prova, ma di non essere lasciati so­li a lottare contro il male, nel giorno del buio. E dalla sfi­ducia e dalla paura tiraci fuori; e da ogni ferita o ca­duta rialzaci tu, Samaritano buono delle nostre vite. Insegnaci a pregare, adesso.

domenica 17 luglio 2016

Il Vangelo della Domenica - 17 luglio 2016

Gesù entra nella casa di due donne d'Israele, estromesse dalla formazione religiosa, va direttamente nella loro casa, perché quello è il luogo dove la vita è più vera. E il Vange­lo deve diventare vero nel cuore della vita.
Maria, seduta ai piedi del Si­gnore, ascoltava la sua paro­la.
Sapienza del cuore, il fiu­to per saper scegliere ciò che fa bene alla vita, ciò che re­gala pace e forza: perché l'uo­mo segue quelle strade dove il suo cuore gli dice che tro­verà la felicità. Mi piace immaginare questi due totalmente presi l'uno dall'altra: lui a darsi, lei a ri­ceverlo. E li sento tutti e due felici, lui di aver trovato un nido e un cuore in ascolto, lei di avere un rabbi tutto per sé, per lei che è donna, a cui nes­suno insegna. Lui totalmen­te suo, lei totalmente sua. A Maria doveva bruciare il cuo­re quel giorno. Da quel mo­mento la sua vita è cambia­ta. Maria è diventata fecon­da, grembo dove si custodi­sce il seme della Parola, e per questo non può non essere diventata apostola. Per il re­sto dei suoi giorni a ogni in­contro avrà donato ciò che Gesù le aveva seminato nel cuore.
Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose. Gesù, affettuosamente come si fa con gli amici, rimprovera Marta, ma non contraddice il suo servizio bensì l'affanno, non il cuore generoso di Marta ma l'agitazione. A tut­ti ripete: attento a un troppo che è in agguato, a un trop­po che può sorgere e ingoiarti, che affanna, che di­stoglie il volto degli altri.
Marta - sembra dire Gesù, a lei e a ciascuno di noi - pri­ma le persone, poi le cose. Gesù non sopporta che Mar­ta sia confinata in un ruolo di servizio, che si perda nel­le troppe faccende di casa: tu, le dice Gesù, sei molto di più; tu puoi stare con me in una relazione diversa, non solo di scambio di servizi. Tu puoi condividere con me pensieri, sogni, emozioni, conoscenza, sapienza. «Maria ha scelto la parte mi­gliore», ha iniziato cioè dalla parte giusta il cammino che porta al cuore di Dio. Perché Dio non cerca servitori, ma amici, non cerca delle perso­ne che facciano delle cose per lui, ma gente che gli lasci fare delle cose dentro di sé.

domenica 10 luglio 2016

Il Vangelo della Domenica - 10 luglio 2016


Un uomo scendeva da Gerusalemme a Geri­co. Seguono poche ri­ghe, uno dei racconti più bre­vi al mondo, e più belli, in cui è condensato il dramma e la soluzione di tutta intera la storia umana. Un uomo: non sappiamo il suo nome, ma sappiamo il suo volto: ferito, colpito, terrore e sangue, fac­cia a terra, non ce la fa. È il volto eterno dell'uomo, Il mondo intero passa per la strada che va da Gerusalem­me a Gerico. Nessuno può di­re: io faccio un'altra strada, nessuno può dirsi estraneo alle sorti del mondo. Ci sal­veremo tutti insieme, o sal­vezza non sarà. Un sacerdote scendeva per quella medesima strada. Il primo che passa è un prete, un uomo di Dio. Vede l'uomo a terra, lo aggira, passa oltre. Oltre la carne e il dolore del­l'uomo non c'è Dio, non ci so­no il tempio e il culto solen­ne, c'è solo l'illusione di po­ter amare Dio senza amare il prossimo, l'illusione di sen­tirci a posto perché credenti, il pericolo di una religiosità vuota. L'appuntamento con Dio è sulla strada di Gerico. Percorri l'uomo e arriverai a Dio (Sant'Agostino).
Il secondo che passa è un le­vita... Forse pensa: Ma perché Dio non interviene lui a sal­vare quest'uomo? Dio inter­viene sempre, ma lo fa attra­verso i suoi figli, attraverso di me. La sua risposta al dolore del mondo sono io, inviato come braccia aperte.
Invece un Samaritano, un e­retico, un nemico, mosso a pietà, gli si fa vicino. Sono ter­mini di una carica infinita, bellissima, che grondano di luce, grondano di umanità. Non è spontaneo fermarsi. La compassione non è un istin­to, ma una conquista. Il racconto di Luca adesso met­te in fila dieci verbi per de­scrivere l'amore: lo vide, si mosse a pietà, si avvicinò, scese, versò, fasciò, caricò, lo portò, si prese cura, pagò... fi­no al decimo verbo: al mio ri­torno salderò... Un uomo scendeva da Geru­salemme a Gerico, un uomo fortunato. Perché l'esperien­za di essere stato amato gra­tuitamente, anche una sola volta nella vita, riempie di senso per lungo tempo la vi­ta, risana in profondità chi ha subito violenza e si è sentito calpestato nell'anima. Ma chi è il mio prossimo? Ge­sù risponde: tuo prossimo è chi ha avuto compassione di te. Impara l'amore dall'amore rice­vuto. Diventa anche tu sa­maritano.

Il Vangelo della Domenica - 26 giugno 2016

Vuoi che scenda un fuoco dal cielo e li consumi? La reazione di Giacomo e Giovanni al rifiuto dei Samarita­ni segue la logica comune: farla pagare, occhio per occhio. Gesù si voltò, li rimproverò e si av­viò verso un altro villaggio. Nel­la concisione di queste parole si staglia la grandezza di Gesù. Che difende chi non la pensa come lui, che capovolge la logica della storia, quella che dice: i nemici si combattono e si eliminano. Gesù invece intende eliminare il con­cetto stesso di nemico. E si av­viò verso un altro villaggio. Il Si­gnore inventore di strade: c'è sempre un nuovo villaggio con altri malati da guarire, altri cuo­ri da fasciare; c'è sempre un'al­tra casa dove annunciare pace. Non ha bisogno di mezzi forti o di segni prodigiosi, non cova ri­sentimenti. […]. E il Vangelo diventa viaggio, via da percorrere, spazio aperto. E in­vita il nostro cristianesimo a di­ventare così, a continui passag­gi, a esodi, a percorsi. Come accade anche ai tre nuovi discepoli che entrano in scena nella seconda parte del Vangelo. Ad essi, che ci rappresentano tut­ti, dice: Le volpi hanno tane, gli uccelli nidi, ma io non ho dove posare il capo. Eppure non era esattamente co­sì. Gesù aveva cento case di a­mici e amiche felici di accoglier­lo a condividere pane e sogni. Con la metafora delle volpi e de­gli uccelli Gesù traccia il ritratto della sua esistenza minacciata dal potere religioso e politico, sottoposta a rischio, senza sicu­rezza. Chi vuole vivere tranquil­lo e in pace nel suo nido non po­trà essere suo discepolo. Noi siamo abituati a sentire la fe­de come conforto e sostegno, pa­ne buono che nutre, e gioia. Ma questo Vangelo ci mostra che la fede è anche altro: un progetto che non assicura una esistenza tranquilla, ma offre la gioiosa fa­tica di aprire strade nuove, il ri­schio di essere rifiutati e perfino perseguitati. Perché si oppone e smonta il presente, quando le sue logiche sanno di superficia­lità, di violenza, di inganno, per seminarvi il futuro. Lascia che i morti seppelliscano i loro morti. Una frase durissima che non contesta gli affetti uma­ni, ma si chiarisce con ciò che se­gue: Tu va e annunzia il Regno di Dio. Tu fa cose nuove. Se ti fermi all'esistente, al già visto, al già pensato, non vivi in pienezza. Noi abbiamo bisogno di fre­schezza e il Signore ha bisogno di gente viva. Di gente che, come chi ha posto mano all'aratro, non guardi indietro a sbagli, incoe­renze, fallimenti, ma avanti, ai grandi campi della vita, che gli appartengono, a un Dio che vie­ne dall'avvenire.

domenica 19 giugno 2016

Il Vangelo della Domenica - 19 giugno 2016

Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare... […] E in quest'ora speciale Gesù pone la domanda decisiva, qualcosa da cui poi dipenderà tutto: fede, scelte, vita... ma voi chi dite che io sia? Preceduta da un «ma», come in contrapposizione alle ri­sposte della gente: dicono che sei un profeta, bocca di Dio e dei poveri, una creatura di fuoco e luce. Quella di Gesù non è una domanda per esaminare il livello di conoscen­za che gli apostoli hanno di lui, ma contiene il cuore pul­sante dei miei giorni di credente: Chi sono io per te? Non è in gioco l'esatta definizione di Cristo, ma la presa, lo spazio che occupa in me, nei pensieri, nelle parole, nella gior­nata. Il tempo e il cuore che mi ha preso. Gesù, maestro di umanità, non impone risposte, ti con­duce con delicatezza a cercare dentro di te. Allora il pas­sato non basta, non serve riandare ad Elia o a Giovanni. In Gesù c'è un presente di parole mai udite, di gesti mai visti, una mano che ti prende le viscere e ti fa partorire (A. Merini). Partorire vita più grande. Pietro risponde con la sua irruenza: tu sei il Cristo di Dio. Il messia di Dio, il suo braccio, il suo progetto, la sua boc­ca, il suo cuore. Ma Pietro non sa che cosa lo aspetta. La risposta di Gesù ci sorprende ancora: ordinò severamen­te di non dire niente a nessuno. Severamente, perché c'e­ra il grave rischio di annunciare un Messia sbagliato. Ed è lui stesso a tracciare il vero volto del Figlio dell'Uomo che deve soffrire molto, venire ucciso e risorgere il terzo gior­no. Dio è passione, passione d'amore. Passione che sa­crifica se stessa. Una passione che nessuna tomba può imprigionare. Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sè stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Seguire Cristo significa portare avanti il suo progetto. Ma come? Gesù non dice «prenda la mia croce», ma la sua, ciascuno la sua. Il progetto è unico, ma ognuno percorrerà la sua strada li­bera e creativa, diversa da tutte, che deve tracciare, che non è già tracciata. La croce è la sintesi del Vangelo. Qualun­que sia il tuo stato di vita, l'età, il lavoro, la salute, tu puoi, con le tue fatiche, i tuoi talenti e le debolezze, prendere il Vangelo su di te e collaborare con Cristo alla sua stessa mis­sione, allo stesso sogno di una umanità incamminata ver­so una vita buona, lieta e creativa, «non come un esecu­tore di ordini ma come un artista sotto l'ispirazione del­lo Spirito» (Maritain).

Il Vangelo della Domenica - 12 giugno 2016

Un momento esplosi­vo del Vangelo, che rovescia convenzio­ni e ruoli, che mette prepo­tentemente al centro l'amo­re: questa donna ha molto a­mato. Questo basta. Un Van­gelo che ci provoca, ci con­testa e ci incoraggia. La fede non è un intreccio compli­cato di dogmi e doveri. Gesù ne indica il cuore: ama, hai fatto tutto. Ecco una donna venne... con un vasetto di profumo. Non con la cifra corrispon­dente (da dare ai poveri), non a mani vuote, non con un di­scorso di belle parole. Viene con quello che ha, con ciò che esprime amore, più che pentimento. Qualcosa per il corpo di Gesù, solo per il cor­po, e che rivela amore. Bagna i suoi piedi con le la­crime, li asciuga con i capel­li, li profuma, li bacia. Sono gesti imprevisti, nuovi, oltre la legge, oltre lecito e illecito, oltre doveri o obblighi, con una carica affettiva veemen­te. Ai quali Gesù non si sot­trae, che apprezza. Bastava, come tanti altri, chiedere perdono. Ma perché questi gesti eccessivi, il profumo e le carezze e i baci? Già nella legge antica Dio aveva chie­sto per sé un altare per i pro­fumi; nel Cantico dei Canti­ci il profumo prolunga la pre­senza dell'amato, quando ha lasciato la stanza; le carezze e i baci sono la lingua uni­versale dove è detto il cuore. Ogni gesto d'amore è sem­pre decretato dal cielo. Gesù gode il fiorire dell'a­more, vede la donna uscire dalla contabilità del dare e dell'avere, come se avesse u­na specie di conto da regola­re con il Signore, ed effon­dersi negli spazi della libertà e della creatività, fino a bru­ciare in un solo gesto un in­tero patrimonio di calcoli e di tristezze. Ogni gesto umano compiuto con tutto il cuore ci avvicina all'assoluto di Dio. Gesù guarda al di là delle e­tichette: arriva una donna, gli altri vedono una pecca­trice, lui vede un'amante: ha molto amato. L'amore vale più del peccato. È la nostra identità. L'errore che hai commesso non rèvoca il be­ne compiuto, non lo annul­la. È il bene invece che revo­ca il male di ieri e lo cancel­la. Una spiga conta più di tut­ta la zizzania del campo. Questo Dio che ama il pro­fumo e le carezze, mi com­muove. Non è il grande con­tabile del cosmo, ma è offer­ta di solarità, possibilità di vi­ta profonda, gioiosa, profu­mata, che sa le sorgenti del­la gioia, del canto, dell'ami­cizia. Un solo gesto d'amo­re, anche muto e senza eco, è più utile al mondo dell'a­zione più clamorosa, dell'o­pera più grandiosa. È la rivo­luzione totale di Gesù, pos­sibile a tutti, possibile ogni giorno.

Il Vangelo della Domenica - 29 maggio 2016


Mandali via, è sera or­mai e siamo in un luogo deserto. Gli a­postoli hanno a cuore la gen­te, ma solo in parte, è come se dicessero: lascia che ognu­no si risolva i suoi problemi da solo. Gesù non li ascolta, lui non ha mai mandato via nessuno, vuole fare di quel deserto, di ogni nostro deser­to, una casa dove si condivi­dono pane e sogni. Il Vangelo trabocca di mira­coli compiuti sui corpi di uo­mini, donne, bambini. I cor­pi guariti diventano come il laboratorio del Regno, il col­laudo di un mondo nuovo, ri­sanato, liberato, respirante. Diventato casa: «fateli sedere in gruppi», metteteli in rela­zione tra loro, che facciano casa. Il miracolo della condi­visione dei pani e dei pesci ­il Vangelo non parla di molti­plicazione - inizia con una ri­chiesta illogica di Gesù ai suoi: Date loro voi stessi da mangiare. Ma gli apostoli non sono in grado, hanno soltan­to cinque pani, un pane ogni mille persone. La sorpresa di quella sera è che poco pane condiviso con gli altri è suffi­ciente, che la fine della fame non sta nel mangiare a sa­zietà, da solo, il tuo pane, ma nello spartire con gli altri il poco che hai, il bicchiere d'acqua fresca, olio e vino sul­le ferite, un po' di tempo e un po' di cuore. Noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo do­nato alla fame d'altri. Gesù avanza questa pretesa irragionevole e profetica (voi date da mangiare) per dire a noi, alla Chiesa tutta di se­guire la voce della profezia, non quella della ragione; di imparare a ragionare con il cuore, il cuore sognatore di chi condivide anche ciò che non ha. Dona, allora, anche il tempo che non hai. Non conta la quantità ma l'intensità. E ve­drai che il tempo e il cuore do­nati si moltiplicheranno. Ve­drai che torneranno a te ore più liete, giorni più sereni, battiti danzanti del cuore. Tutti mangiarono a sazietà.
Quel «tutti» è importante. So­no bambini, donne, uomini. Sono santi e peccatori, since­ri o bugiardi, donne di Sama­ria con cinque mariti e altret­tanti divorzi, nessuno esclu­so.
Così Dio immagina la sua Chiesa: capace di insegnare, guarire, saziare, accogliere senza escludere nessuno, ca­pace come gli apostoli di ac­cettare la sfida di mettere in comune tutto quello che ha. Capace di operare miracoli, che non consistono nella moltiplicazione di beni ma­teriali, ma nella prodigiosa e creativa moltiplicazione del cuore.